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Chi è che ha ragione

Pensare di avere ragione è una delle caratteristiche più comuni all’umanità. Ad esempio, sono convinto di aver ragione su questo punto. D’altra parte chi non è d’accordo con me è convinto, pure lui, di aver ragione. In fondo, se non pensassimo di aver ragione, cambieremmo subito opinione.

Certo, per fortuna siamo anche assaliti dai dubbi. E possiamo definire l’equilibrio tra i momenti di dubbio e di certezza come un indicatore di saggezza (anche su questo, penso di aver ragione).

 

Questa credenza che ha ciascuno di aver ragione (che include quando si è convinti di avere sempre torto) è vera in tutti gli ambiti: il modo in cui educhiamo i figli, in cui ci relazioniamo al coniuge o agli amici, il modo in cui svolgiamo il nostro lavoro.

È curioso, ma questa credenza è vera ancor di più quando riguarda gli altri: il modo in cui educano figli, si relazionano al coniuge o agli amici, il modo in cui svolgono il proprio lavoro. Non importa se ne sappiamo poco: quel poco basta a farci un’idea. D’altra parte, ognuno è da sempre il miglior allenatore della nazionale di calcio. Negli ultimi tempi, poi, ognuno è anche diventato il miglior Ministro della Salute, o anche il miglior Primo Ministro.

Quella di sapere meglio di un altro ciò che andrebbe fatto, è una credenza che non agisce a viso aperto, ma è subdola. Si esprime con frasi del tipo “non conosco questo argomento”, o “certo c’è un contesto complicato” e poi aggiunge “però, secondo me, su questa cosa …”. E si conclude con un salomonico “beh, lo sa lui ciò che va fatto”. Ma resta, nel fondo, persistente.

 

Questa credenza è vera anche in azienda. Anche in azienda ciascuno ha un’idea di come ciascun altro dovrebbe approcciare il proprio lavoro, di come dovrebbe approfondire un argomento, di come dovrebbe modificare un’attitudine. In molti (soprattutto tra i manager) sanno ciò che dovrebbe fare il proprio capo, il capo del loro capo e, naturalmente, ciò che dovrebbe fare l’Amministratore Delegato.

Molti sono i manager, per non parlare di coach e consulenti, esperti del lavoro di Amministratore Delegato, (come nella nota storia di Velasco, dove ogni schiacciatore sa tutto dell’alzata).

La realtà è che ogni ruolo che la vita ci chiama a ricoprire è complesso, e ciascuno lo affronta come può in base alle proprie competenze, attitudini, modi di pensare. Nonostante questi limiti, però, nel ricoprire quel ruolo ne diveniamo esperti.

Il capitano di una nave di lungo corso, ad esempio, è un esperto dell’essere capitano. Forse non è empatico, o forse è un pusillanime; forse non ha dettagliate competenze tecniche sul funzionamento del motore della nave, né di idrodinamica. Forse ha tendenza ad accentrare troppo le decisioni, o se ne frega se vede un barcone di migranti in pericolo. Ma è esperto nell’essere capitano: conosce ciò che si deve fare quando il mare è mosso, quando si avvicina un’altra nave, come far sì che il viaggio si svolga in sicurezza. È esperto delle relazioni complesse e innumerevoli tra tutti i fattori che favoriscono o ostacolano la realizzazione del viaggio o dello stare a terra.

Più spesso di quanto si pensi, ciascuno è il vero esperto del proprio mestiere.

Questa affermazione ha tuttavia conseguenze pericolose. Allora vuol dire che non si ha diritto di pensarla diversamente, di criticare comportamenti, di proporre azioni di miglioramento?

Il paradosso è che sono vere le due affermazioni: ciascuno è il vero esperto del proprio mestiere, ma ci sono aree di miglioramento che solo gli altri possono vedere.

Un collaboratore (o manager) di un’azienda è nella miglior posizione per valutare ciò che è corretto e ciò che è sbagliato. D’altra parte, è nella peggior posizione per valutare il modo in cui egli valuta ciò che è corretto e ciò che è sbagliato.

Una affermazione sembra condannare, e l’altra sembra giustificare, la ridda di opinioni che emergono attorno all’operato di quel collaboratore.

Occorre includere e trascendere le due affermazioni, contro la tendenza che ha ciascuno di privilegiare l’una o l’altra. Trascendere quella polarità che oscilla tra l’arroganza e l’insicurezza, per stabilirsi ad un livello di consapevolezza più alta (o più profonda), di diversa natura.

 

Le conseguenze di queste conclusioni possono essere ampie, ma qui mi interesso al contesto dell’azienda e, in particolare, a quello più specifico dell’intervento di consulenti (o coach o formatori: qui intendo chi interviene in azienda da “esperto”, in senso lato).

Cosa vuol dire questo per un consulente rispetto a un’azienda? Rispetto allo sviluppo del lavoro di un Amministratore Delegato, ad esempio, o anche di un semplice collaboratore? Rispetto alla trasformazione dei processi, o dell’azienda?

A mio avviso, vuol dire essere contemporaneamente consapevole di questi due paradossi. La superiorità di chi il lavoro lo svolge, e la sua cecità sul modo in cui lo svolge. La superiorità di chi osserva un lavoro e la sua cecità sulle vere relazioni sottostanti (tra persone, tra parti del prodotto, coi clienti, rispetto agli strumenti).

Vuol dire essere consapevoli che, in azienda, è possibile realizzare un intervento di cambiamento solo in presenza di un’alleanza speciale tra consulente e collaboratore (o manager). Un’alleanza realizzata a quel livello di consapevolezza che trascende la polarità “ho ragione io / ha ragione lui”. Un’alleanza in cui i protagonisti sono, contemporaneamente e su qualsiasi argomento, entrambe superiori all’altro ed entrambe ciechi rispetto all’altro.

Perché questa consapevolezza sia possibile, è necessario che il “consulente” pratichi allenamenti a diversi livelli:

  • Quello delle tecniche, tecnologie e strumenti da utilizzare per l’evoluzione dei processi, secondo prevalenti logiche di causa-effetto (dominio della consulenza tradizionale)
  • Quello delle modalità di intervento, che tengano presente il contesto delle relazioni, la cultura e le motivazioni (dominio del coaching e della consulenza HR)
  • Infine, quello della propria riflessione personale per cogliere la complessità aziendale: e questo include i paradossi innumerevoli delle aziende (e di tutte le realtà complesse).

L’assenza di una di queste dimensioni di pratica, può provocare tentativi di trasformazione aziendali accompagnati da un diffuso senso di frustrazione. Chi li ha vissuti sa di cosa parlo: delle montagne di proclami che partoriscono topolini di risultato (dipinti da tutti, invece, come montagne).

Questa è la ragione per cui scrivo questo blog: fa parte della mia pratica personale e, al contempo, spero possa fare da specchio ad altre riflessioni personali.

Per riuscire ad accrescere quel senso di certezza che, attraverso la riflessione, si afferma a discapito delle certezze su chi ha ragione e su cosa.

 

/Photo by George Becker from Pexels