Alt Full Image

Processi e processi

Nella cronaca di questi giorni si riflette molto sulla riforma della giustizia. Cartabia o non Cartabia, questo è il dilemma. Aiuta o compromette il funzionamento della giustizia italiana? È una riforma necessaria oppure un intralcio evitabile?

La mia convinzione è che, questa riforma, almeno in alcune sue parti porta delle risposte giuste, ma a domande sbagliate. E che ci si può ispirare – come nelle aziende – alla filosofia del Lean Thinking.

I processi in tribunale sono molto diversi dai processi produttivi. Lo so.

Innanzi tutto, non abbiamo a che fare con oggetti ma con la vita delle persone. Se sbagli ad assemblare un frigo, al limite butti via il latte e si sciolgono i ghiaccioli. Se sbagli a confezionare una sentenza, butti via una vita. Però questo non è sempre vero, a ben guardare: perché se sbagli a collegare i freni di una moto, anche là butti via una vita.

Altra differenza: un processo di produzione “costruisce” un oggetto, mentre un processo in tribunale “ricostruisce” i fatti e li compara alle leggi. Ma anche questo non è proprio vero: perché quando una banca cerca di capire se prestare o no dei soldi, anche lei ricostruisce dei fatti e li compara alle proprie norme creditizie.

Ma ecco una vera differenza. In un processo di produzione, solitamente, tutti gli attori sono interessati a un risultato di qualità e a basso costo. In un processo in tribunale, invece, ogni parte è soprattutto interessata a trarre il miglior partito: uno scontro feroce dove, in palio, ci sono il senso di giustizia delle vittime e la libertà personale degli imputati.

D’altra parte, le norme che definiscono un processo di produzione sono più focalizzate sulla facilitazione del lavoro che sulla salvaguardia di sicurezza e qualità (e talvolta si vede, purtroppo). Un processo in tribunale, regolato dal Codice Civile e dal Codice Penale, grazie al cielo, è più orientato a garantire le libertà che a facilitare la fluidità della sentenza (e, anche questo, a volte si vede!).

Siamo d’accordo, dunque: processi di tribunale e processi di produzione sono diversi. Ma, se non possiamo ignorare le differenze, siamo così certi che non ci siano somiglianze evidenti, che stiamo ignorando?

Entrambe, infatti, sono “processi”: ossia una sequenza di attività connesse, che portano al raggiungimento di un risultato complesso (un prodotto o un servizio in un caso, un giudizio nell’altro).

Quindi, poiché ci sono somiglianze, non c’è proprio nulla che possiamo imparare dai processi aziendali, e che può essere trasferito ai processi in tribunale? Sono davvero così troppo diversi?

 

La riforma Cartabia propone, (molto in breve), una prescrizione dopo due anni dall’inizio del processo di appello, e dopo un anno per il ricorso Cassazione.

In pratica, questa riforma riduce la durata dei processi per legge. Tradotto in termini motivazionali, l’obiettivo della riforma è quello di migliorare la rapidità di giudizio attraverso il noto meccanismo della punizione. Non ce la fai a terminare un processo? Allora avrai i titoli sul giornale: “il processo tal de tali, nel tribunale di A, tenuto dal giudice B, che coinvolge il noto mafioso C, è sfumato per decorrenza dei termini di prescrizione”.

Se un tribunale non ce la fa, ha perso. Ecco l’ipotesi della riforma (per questo suo punto): poiché la motivazione dell’istituzione e dei giudici sarà quella di evitare il ludibrio pubblico (della stampa) e privato (della propria coscienza), il tempo medio dei processi si ridurrà.

 

Date le premesse, questa sembra proprio l’unica cosa da fare, l’unica possibile, l’unica intelligente. Date le premesse. A proposito, quali premesse?

La prima premessa – sottointesa ma chiara – è che se i processi non vanno avanti, è colpa dei giudici. Almeno, questo è quello che pensa il nostro Governo. Infatti quale altro significato si può attribuire a questo punto della riforma? Se non questo : “Cara Procura, devi far finire i processi in meno tempo. Se non lo fai, in fondo è perché non vuoi: organizzati!”.

Non scandalizziamoci per questo. Vi garantisco che i top manager di molte aziende pensano esattamente la stessa cosa dei propri collaboratori.

Mi chiedo: non sorge mai il dubbio che, se i processi durano – diciamo – 5 anni e non 10 anni, è proprio grazie all’abnegazione di quei giudici? Non sorge il sospetto che esistono delle condizioni al contorno che impediscono ai giudici e ai procuratori di operare più celermente? E che queste condizioni non sono necessariamente di mezzi, di norme e di tempo: ma di organizzazione e di motivazione?

La seconda premessa, infatti, è questa: che cambiare la norma è l’unico strumento per cambiare le cose. Non esisterebbero, dunque, per gli uomini e le donne dei tribunali, le stesse dinamiche che caratterizzano tutti gli altri uomini e donne. Le scoperte sul comportamento umano, che hanno valso più di un premio Nobel, non si applicherebbero a giudici e procuratori. Di nuovo, almeno questo è ciò che sottintende il Governo con questa norma.

Ancora una volta il governo è in buona compagnia. La stessa cosa, infatti, la pensano quei manager (molti) che cercano la risposta ai problemi di efficienza nel controllo dei comportamenti individuali. L’equazione irrifiutabile dice più o meno questo: più i comportamenti sono codificati, più sono controllabili, più sono sanzionabili individualmente, e più aumenta l’efficienza.

Tuttavia, proviamo ad avanzare il sospetto che giudici e procuratori siano – come qualsiasi manager – uomini e donne come gli altri. Con le stesse dinamiche motivazionali, con gli stessi biais cognitivi, con le stesse aspirazioni a far bene che hanno le altre donne e gli altri uomini - ad esempio, che lavorano in azienda.

Se questo sospetto fosse fondato, allora si aprirebbe un capitolo immenso per il Consiglio Superiore della Magistratura e per il Ministero della Giustizia. Forse troppo grande, conviene chiuderlo subito. Lasciamolo aperto solo il tempo di qualche riflessione.

La motivazione non si genera attraverso lo strumento della paura. Occorrono compiti chiari, feedback immediati, obiettivi sfidanti ma raggiungibili. Occorre la condivisione di una strategia, diffusa attraverso il coinvolgimento continuo delle persone. Occorre condividere le difficoltà e identificare le aree di miglioramento con un’attività autonoma delle stesse procure. Occorre VEDERE che non è la burocrazia che gestisce il comportamento umano, ma la fiducia e la motivazione intrinseca.

Terza premessa. Non c’è nulla che i processi produttivi possono insegnare ai processi di tribunale. È proprio la premessa di apertura. Di qua un prodotto, di là un giudizio. Di qua una cooperazione, di là una contrapposizione. Di qua condizioni che facilitano la produzione, di là condizioni garantiste. Soprattutto, di qua un proprietario interessato al profitto, di là un’istituzione indifferente. Ok, tutto diverso. Ma non c’è nulla di simile?

A me sorge un sospetto. Gigantesco, e drammatico. Ma siamo sicuri, ma proprio sicuri, che per far funzionare un processo in tribunale sono necessarie soltanto competenze giuridiche? Non è che, per caso, ci sarebbe necessità di alcune competenze di processo produttivo?

 

Vi racconto una mia piccola esperienza giudiziale. Una questione di ladri di galline tra me e il mio vicino, un po' me ne vergogno. In questa immagine, io sono convinto che lui abbia rubato le mie galline, mentre il vicino sostiene che il ladro sono io, e i pennuti son suoi.

Ecco i tempi. 6 mesi per la prima udienza, ma c’è un incendio che scombina tutti i piani. Allora, ritardo di altri 6 mesi. Poi un’udienza ogni 6 – 9 mesi, e infine il giudizio. 4 anni in tutto per il primo grado di giudizio.

In ogni udienza, il giudice ascoltava alcuni teste, mentre un avvocato trascriveva manualmente quanto dichiarato. Ogni 6 mesi, il giudice riprendeva le carte ed ascoltava altri teste. Poi, per formulare il suo giudizio, ha nuovamente preso tutti i documenti, li ha riletti ed ha scritto la sua breve sentenza dopo altri 3 mesi.

Lasciamo questa mia testimonianza da parte per un attimo.

 

Come si trasforma un’azienda? Non solo se modifichi i processi produttivi. Si trasforma se evolvono i paradigmi cognitivi che hanno generato quei processi.

Fidatevi: non si trasformerà il sistema giudiziario italiano se non si trasformeranno i suoi paradigmi cognitivi, ed in particolare questi tre. Le norme devono cambiare per consentire il cambiamento, questo è sicuro. Ma è altrettanto sicuro che questo non basta per una reale trasformazione.

 

Come cambiare questi paradigmi, dunque? La mia tesi è questa.

I giudici e i procuratori non sono dei fannulloni. La maggior parte di loro, almeno nei primi anni di carriera, fa di tutto per rispondere alla spinta della propria coscienza a far bene: c’è quasi sempre una profonda motivazione alla giustizia.

I magistrati, talvolta, perdono la motivazione a far bene perché il contesto l’ostacola. Un contesto che crede nella variazione della norma come solo meccanismo esistente, o che insinua che solo la minaccia può smuovere le cose, non può far altro che scoraggiare i migliori e far insediare i peggiori. Proprio come in azienda.

Quanto, nel mondo della giustizia, si dedica del tempo per definire degli obiettivi (tempi, equità, efficienza) e ragionare di questi obiettivi con le procure e nelle procure? Quanto si misura e ci si confronta? I magistrati sono spesso sensibili all’equità del giudizio: quanto è percepito come iniqua o come normale la durata “lunga” di un processo? Davvero questo non è possibile perché non c'è una gerarchia formale, un "capo", su un giudice? Davvero si crede che i magistrati non farebbero volontariamente alcune attività, se queste migliorassero il funzionamento delle loro procure?

Quali sono gli ostacoli che allungano i processi? C’è un’analisi dei processi “lunghi” all’interno di ogni procura? Una comprensione delle cause, e delle contromisure possibili?

 

In azienda, in quelle Lean, si parla di miglioramento continuo. In una azienda Lean, si dice che ogni collaboratore è pagato per due cose: produrre e migliorare il processo di produzione.

Ebbene, il lavoro di ogni magistrato dovrebbe essere quello di giudicare e di migliorare il processo di giudizio. Un’azione promossa centralmente dal Ministero della Giustizia, e animata dalle singole procure.

Non solo. I principi di produzione possono ispirare grandemente i processi di tribunale.

 

Riprendo il processo civile che, purtroppo, mi vede coinvolto. Se un giudice deve riprendere le carte per quattro o cinque volte ogni 6 mesi, e poi formulare il suo giudizio dopo altri 6 mesi, ci sono sprechi evidenti. Prendere e riprendere delle carte a così grande distanza obbliga ogni volta a riprendere a mente tutto ciò che è stato detto. È come se, per accordare un mutuo, un ufficio crediti bancario prendesse prima il bilancio, poi sei mesi dopo i documenti catastali eccetera.

Nei processi di produzione è evidente che far avanzare in parallelo più lavorazioni è molto meno efficiente che farne una per volta. Certamente si potrebbe nei tribunali: semplicemente i paradigmi mentali attuali impediscono di porsi questa sfida. Vi garantisco, e con cognizione di causa, che (almeno per i processi civili simili al mio) se un giudice prendesse un processo alla volta, e se formulasse “a flusso” il proprio giudizio, ci sarebbe un miglioramento di efficienza superiore al 50%. Ossia: raddoppierebbe la forza lavoro dei magistrati.

Inoltre, a questo si possono aggiungere i miglioramenti tecnologici (siamo sicuri che sia la cosa migliore scrivere le testimonianze a mano?), e la gestione logistica delle carte processuali (che non ho potuto vedere, ma ho enormi sospetti di inefficienza).

 

In conclusione, l’attuale riforma della Giustizia è una proposta di miglioramento normativo che lavora la punta visibile dell’iceberg. C’è una dimensione nascosta, più profonda e con potenziale molto maggiore. Ma è necessario cambiare il modo con cui il mondo della giustizia guarda se stessa.

I magistrati sono uomini e donne, sottomessi al funzionamento umano. Valgono per loro le condizioni motivazionali umane, e certamente fissare un limite di prescrizione in modo normativo non è la soluzione. 

D'altra parte, i processi di tribunale hanno alcune caratteristiche identiche ai processi produttivi, e un magistrato dovrebbe avere una competenza anche sui principi che rendono un processo di miglior qualità e, al tempo stesso, di durata inferiore.

La sfida, come sempre, non è migliorare le cose ma guardare al mondo con occhi diversi. 

 

Photo by Sora Shimazaki from Pexels